Scrittore e drammaturgo italiano. Nato nei pressi di Girgenti (Agrigento) da una
famiglia della borghesia commerciale in cui era viva la tradizione patriottica e
garibaldina, visse una giovinezza agiata. Dopo aver iniziato gli studi tecnici a
Palermo, passò a quelli letterari, che continuò a Roma e
perfezionò a Bonn. Mosso da interessi filologici, si laureò nel
1891 all'università di Bonn con una tesi di argomento glottologico
sui dialetti greco-siculi (
La parlata di Girgenti). A Bonn fu per un anno
lettore di italiano. Tornato a Girgenti, sposò Antonietta Portulano e con
lei si trasferì a Roma nel 1894. Qui frequentò giornalisti e
scrittori, tra cui Luigi Capuana, il narratore e teorizzatore del Verismo.
Grazie a Capuana entrò in contatto con il mondo intellettuale romano.
Sempre per incoraggiamento di Capuana si venne dedicando alla narrativa, con il
romanzo
L'esclusa e le prime novelle, passando così
dall'influenza carducciana, avvertibile nei versi giovanili, a quella
verghiana e veristica. La poesia, cui
P. si era dedicato negli anni
trascorsi in Germania (
Pasqua di Gea, 1891;
Elegie renane, 1895;
Zampogna, 1901), divenne progressivamente un interesse sempre più
marginale nella sua produzione letteraria, a vantaggio della saggistica, della
narrativa e del teatro. Nel 1897
P. cominciò a insegnare
Letteratura italiana alla facoltà di Magistero. L'allagamento di
una zolfara, nella quale era stato impegnato tutto il patrimonio della famiglia,
portò la moglie a una depressione destinata a sfociare con il tempo nella
pazzia (e nevrosi e pazzia sarebbero stati motivi frequenti della futura arte
pirandelliana). Intanto
P. scriveva e pubblicava le sue prime opere di
narrativa. Nel 1910 diede inizio all'attività teatrale, in
sodalizio con il comico siciliano Angelo Musco. Il 1915 segnò una nuova
fase tragica della sua vita: il figlio Stefano, partito per la guerra, fu fatto
prigioniero, mentre la malattia della moglie si aggravò, imponendole il
ricovero in una clinica psichiatrica
. Tuttavia gli anni del dopoguerra
furono estremamente fecondi sul piano creativo, specialmente in campo teatrale.
Nel 1925
P. fondò la Compagnia del Teatro d'Arte; qualche
anno dopo cominciò a collaborare alla sceneggiatura e
all'adattamento cinematografico di alcune sue opere, che nel frattempo
venivano apprezzate in tutto il mondo. Accademico d'Italia dal 1929, gli
fu conferito nel 1934 il premio Nobel per la letteratura. ║
Ideologia e
poetica: all'origine della visione del mondo di
P. è
quella medesima crisi di una filosofia, il Positivismo, e dei valori di una
società, la società borghese ottocentesca, che era alle radici
della civiltà decadente. Formatosi appunto nel periodo del trapasso dal
Verismo al Decadentismo,
P. assume piena coscienza di questo difficile
momento di transizione, ed è forse lo scrittore italiano che meglio
rappresenta la lunga crisi storica che parte dal Risorgimento fallito, aderisce
all'Anarchismo antiparlamentare e antiliberale del nascente Fascismo,
tenta un adeguamento alla politica del regime e registra, infine, anche il suo
fallimento. Il problema del rapporto tra uomo e società è centrale
in
P., così come è radicale la negazione di una possibile
integrazione dell'uno nell'altra. Nell'opera di demolizione
dei miti umanistici e spiritualistici che affermano la centralità umana e
l'unicità del punto di vista interpretativo della realtà, lo
scrittore rapidamente passa dall'area del Decadentismo a quella
dell'Esistenzialismo e del Novecentismo e anticipando, sia nella narrativa
sia nel teatro, molti temi e molte tecniche poi ripresi nel secondo dopoguerra.
Fondamentale è per
P. il contrasto fra ciò che appare (la
"forma") e ciò che è (la "vita"). La vita
è un universale ed eterno fluire, incessante trasformazione da uno stato
all'altro, ma viene irrigidita, fissata in forme, interpretata cioè
o costruita in modo diverso a seconda delle epoche e relativamente alle
convinzioni di ciascun individuo: ciascuno di noi, in altri termini, dà
una forma alla vita, ne ha una sua visione, ha una sua verità. Ma la
realtà, per la sua natura magmatica, è inafferrabile, e pertanto
quello che noi chiamiamo "reale" è una costruzione illusoria
continua. In questo flusso, in questo perpetuo divenire che è la vita,
non esiste un disegno: l'elemento dominante è il caso, da cui non
si può estrarre una logica. All'interno dell'Io, il contrasto
tra vita e forma diventa contrasto tra ciò che sembriamo esteriormente,
agli occhi degli altri - ma anche di noi stessi, che tendiamo a costruirci del
nostro Io un'immagine convenzionale - e la nostra vera, schietta
realtà, che noi vorremmo affermare. Senonché la nostra
personalità non è univoca, non ha una realtà fissa,
oggettiva: al di sotto della maschera in cui ci si cristallizza, l'anima
si muove in perenni trasmutazioni. Applicato alla società, il contrasto
tra vita e forma diventa conflitto tra la natura da una parte, e le istituzioni
storiche e le convenzioni sociali dall'altra - le "forme" che
gli uomini si sono date e che hanno finito con il ridurli a marionette, secondo
la definizione pirandelliana. Di qui, i rapporti alienati tra gli individui; di
qui anche la caratteristica del personaggio pirandelliano, sempre sconfitto
dalla società, incarnata nella società borghese tra Ottocento e
Novecento, e dai suoi riti. Nell'arte, il contrasto tra vita e forma si
traduce nell'umorismo, nella capacità di cogliere criticamente le
contraddizioni del reale, integrando rappresentazione della realtà quale
appare e riflessione su quanto si cela dietro le apparenze. Dal punto di vista
stilistico, l'umorismo "scompone, disordina, discorda"; porta a
opere disarmoniche, frammentate da digressioni continue: che è appunto il
carattere dello stile pirandelliano. L'assurdo esistenziale, i capricci
del caso, la disgregazione dell'individuo e quindi del personaggio,
l'incomunicabilità, i condizionamenti e le ipocrisie della
società borghese sono i temi che
P. ha in comune con la grande
narrativa decadente europea (e con Svevo). ║
La saggistica:
P. svolse una intensa attività di pubblicista e conferenziere,
collaborando a numerosi giornali e riviste e tenendo spesso discorsi in
occasioni ufficiali. Fra gli scritti teorici spicca il saggio
L'umorismo, pubblicato nel 1908, che costituisce la basilare chiave
di interpretazione dell'intera sua opera di scrittore. Pur essendo
discutibile nella sua impostazione teorica, il saggio contiene alcuni fondamenti
della poetica pirandelliana. La polemica che sorse tra Croce e
P. in
seguito alla pubblicazione di questo saggio rispecchia due giudizi storici e due
posizioni esistenziali opposte: Croce affermava l'ottimismo della
supremazia della ragione, della filosofia e dell'arte classica.
P.
rovesciava questa posizione: la ragione umana è insufficiente a spiegare
una condizione alienata al mondo, alla società e infine a se stessa;
rintracciava, quindi, nelle espressioni artistiche atteggiamenti capaci di
restituire l'immagine di un mondo disarmonico, contorto e sconnesso; un
mondo che non si spiega con le categorie logiche e che si può solo
sottoporre all'analisi della riflessione e della coscienza critica.
Sostanzialmente, i fondamenti dell'estetica pirandelliana non superano
quelli espressi da Croce nella sua
Estetica del 1902; conta il fatto che
lo scrittore, con questo saggio, non intende fondare una estetica, ma vuole solo
legittimare uno strumento parziale di conoscenza di un mondo disarticolato,
parcellizzato, privo di valori assoluti e quindi privo di un unico punto di
vista interpretativo. Il saggio sull'umorismo, anziché
un'estetica mancata, è piuttosto la prova
dell'inessenzialità di un'estetica per la generazione che ha
dissipato le estetiche precedenti, idealistiche e romantiche. La figura
dell'umorista, quale compare spesso nelle opere di
P., non è
un filosofo, bensì un intellettuale, cioè una coscienza critica
capace di esprimere gli estremi del suo dissenso tra quel che sembra e quel che
è, gli estremi della sua estraneità a un mondo di cui si
diagnostica la inautenticità e l'estraneità all'uomo.
La prima parte del saggio è dedicata alla definizione ed esemplificazione
dell'arte umoristica secondo un taglio storico, orizzontale, con molte
citazioni tratte dalla storia letteraria. Nella seconda parte l'autore
argomenta la propria concezione dell'umorismo, ponendo la differenza tra
comicità e umorismo: mentre la comicità si basa su opposizioni
nette e genera nel fruitore una reazione immediata e sicura, un effetto
irresistibile capace di suscitare il riso, l'umorismo si distingue per la
presenza di contrasti sfumati, che generano nel fruitore una reazione perplessa
e ambivalente. L'umorismo induce non al riso ma alla riflessione,
poiché in esso gli aspetti potenzialmente comici di una situazione si
mescolano a risvolti drammatici, determinando appunto l'ambivalenza della
reazione. In quanto "sentimento del contrario", l'arte
umoristica si serve della riflessione per negare e capovolgere il messaggio del
dato obiettivo, e del "sentimento" per stabilire un rapporto di
continuità e di comprensione con quel dato. All'origine della
poetica dell'umorismo c'è la coscienza della
inautenticità della vita sociale e della necessità della menzogna,
che conduce l'uomo a una continua simulazione: la vita è flusso
continuo che noi cerchiamo di arrestare in forme stabili e determinate dentro e
fuori di noi, in forme che vorremmo coerenti e che ci inducono invece a continue
finzioni. L'atteggiamento umoristico conduce alla consapevolezza
dell'inganno, perché esso "vede in tutto una costruzione o
finta o fittizia del sentimento e con arguta, sottile e minuta analisi la smonta
e la scompone; ugualmente, le opere umoristiche sono scomposte, interrotte,
intramezzate di continue digressioni". Viene in tal modo formulata la
concezione di un'arte che si regola sull'oggetto rappresentato e che
dalla disorganicità e sconnessione deduce la necessità di una
forma sconnessa e disgiunta, capace di aderire all'oggetto oltre ogni
modello di tipo retorico. Sono queste le premesse che consentono a
P. di
condurre la sua rivoluzione formale, quella che la critica ha definito la sua
"scomposizione cubista del mondo narrativo verista", così come
si realizza nelle novelle, nel
Fu Mattia Pascal e nel teatro. Lo
sperimentalismo di
P. in campo linguistico è più agguerrito
di quello di qualsiasi avanguardia: la sua è una lingua perfettamente
aderente alla poetica dell'umorismo, che elimina le gerarchie di rango e
di valore e mescola tutto il lessico in vista di un effetto espressivo comico e
contemporaneamente tragico. Una lingua profondamente mimetica rispetto al
personaggio, che si esprime, nella narrativa, nel discorso indiretto libero o
nell'
a solo recitativo. Altri saggi di
P. sono
Arte e
coscienza d'oggi (1893) e
Teatro vecchio e teatro nuovo (1923).
║
La narrativa: il genere novellistico costituisce il laboratorio
principale della ricerca letteraria di
P. Dalle novelle le invenzioni
narrative di
P. trapassano nei romanzi e soprattutto nel teatro.
P. stesso programmò la raccolta completa della sua produzione
novellistica sotto il titolo di
Novelle per un anno, quasi a voler
significare il carattere strutturale all'interno della sua concezione
della letteratura e del mondo della predilezione accordata a questo genere
letterario, che lo scrittore continuò infatti a coltivare per tutta la
vita. Nella novella, in effetti, la poetica dell'umorismo trova la sua
forma specifica: per la brevità del racconto, per la stessa condensazione
della narrazione, che offre la possibilità di protrarre il paradosso in
limiti non deludenti per il lettore. È possibile ricostruire a grandi
linee i tratti della novella esemplare di
P. (gli stessi peraltro che
è possibile rintracciare nei romanzi): nella situazione quotidiana e
normale un elemento accidentale, sia esso esterno al personaggio o interno ad
esso, viene a rompere la consuetudine e a modificare il livello di coscienza del
personaggio. Questo elemento sconvolge una esistenza, ma le acquista anche
spessore e coscienza. Il personaggio accentua il suo isolamento, la sua
estraneità al mondo: nome, ritratto, lingua mirano a questa posizione di
tragica e comica estraneità della logica del personaggio alla logica
della vita. Nella novella
La carriola, per limitarsi ad un esempio tra i
molti, il protagonista è un uomo che viene visto dagli altri come buon
padre di famiglia e affermato professionista. Anch'egli si riconosce in
questo ruolo, del quale è convinto. Ed ecco che un giorno,
inaspettatamente, ha, folgorante, la sensazione che avrebbe potuto vivere
un'altra vita, diversa; e allora la sua condizione e il suo ruolo gli
diventano intollerabili. Ma ormai è troppo tardi per cambiare, ed egli
dovrà essere per sempre schiavo della sua maschera, della sua
"forma", che è quella che gli altri gli hanno imposto, ma che
lui stesso ha contribuito a crearsi. Quando un individuo - più attento a
cogliere le intuizioni del suo inconscio o a indagare su se stesso - arriva a
capire la sua condanna, va incontro inevitabilmente agli esiti di una disperata
situazione esistenziale, segnata dalla nevrosi, dalla pazzia o dal suicidio.
Nelle novelle di
P., come nei romanzi, l'ambientazione è
quella solita degli ambienti della media e piccola borghesia di fine Ottocento o
di inizio secolo, non diversamente da quanto avveniva nei romanzi di Capuana e
dei continuatori del modulo veristico. Ma il mondo ideologico del Verismo appare
in
P. corroso dall'interno e reso impraticabile, posto in crisi
dalla disarticolazione umoristica della vicenda. Questo procedimento è
già avvertibile chiaramente nel romanzo
L'esclusa (1901),
l'opera che segnò l'esordio di
P. come romanziere. In
esso una donna, Marta Aiala, accusata di aver tradito il marito, è
costretta dalla gretta e spietata mentalità paesana ad abbandonare la
casa, il luogo natale, il lavoro. Quando però in un impulso di ribellione
cede all'uomo che le hanno attribuito come amante, si verifica il
paradosso: il marito, convinto ora della sua innocenza, la rivuole con
sé. Il tema dell'adulterio, che costituisce l'argomento
principale del romanzo, è uno dei più ricorrenti nella letteratura
naturalistica dell'epoca. Senonché a
P. tale tema interessa
solamente per lo sviluppo paradossale che è destinato ad avere nel corso
della vicenda. L'uso puramente sperimentale dei moduli veristici è
ancora più evidente nel romanzo successivo,
Il turno (1902), e
soprattutto nel
Fu Mattia Pascal (1904), che è il romanzo che
consacrò definitivamente
P. come narratore. In quest'opera,
il protagonista Mattia Pascal, al termine di una gioventù dissipata, si
trova costretto ad affrontare una vita matrimoniale che si rivela disastrosa e
nella quale egli sente annullata, di giorno in giorno, la sua dignità di
uomo. Quando ormai dispera di poter realizzare una vita "autentica",
il caso lo aiuta con una vincita al gioco; ancora il caso gli fa apprendere in
treno, da un giornale, di essere stato identificato dai familiari nel cadavere
di un suicida. È una illuminazione: egli decide di sparire per sempre, di
cambiare generalità, di cambiare fisionomia e vita! Eccolo quindi a Roma,
con il nome di Adriano Meis: va in pensione in una famiglia, conosce una
ragazza, se ne innamora... ma non può sposarla, né difenderla,
né difendersi: senza una forma, uno stato anagrafico, non è
possibile essere accettati nel consorzio civile. Inscena così,
rassegnato, un finto suicidio e ritorna a casa. Ma la moglie si è creata
una nuova famiglia, ed egli è ancora una volta un escluso, ai margini
della vita. Unica, ironica consolazione, visitare la propria tomba e ricercare
una identità sul filo del paradosso: "Io sono il fu Mattia
Pascal". Questo è forse il romanzo pirandelliano che più
radicalmente scardina la tecnica narrativa verista: per la mancanza di
linearità del tempo narrativo e l'invertito rapporto causa-effetto
che governa l'intreccio. Le scene nella casa da gioco rappresentano
l'emblema della vicenda: da un insieme di elementi casuali nasce una
necessità, un destino. La poetica dell'umorismo trova qui la sua
più organica applicazione. L'opera narrativa di
P., oltre
alle raccolte di novelle
Amori senza amore (1894) e
Novelle per un
anno (1922), comprende anche i romanzi
Suo marito (1911);
I
vecchi e i giovani (1913);
Si gira (1916) (ripubblicato
successivamente con il titolo
Quaderni di Serafino Gubbio operatore);
Uno, nessuno e centomila (1926). ║
Il teatro: tradizione e
sperimentazione: dal 1916 al 1936, anno della sua morte,
l'attività di
P. si rivolge principalmente al teatro. Il
teatro pirandelliano ripercorre le tappe già sperimentate nella
narrativa: dalle forme di un verismo scardinato nella sua struttura interna a
quelle impresse dal personaggio umorista, a quelle infine della disarticolazione
dei ruoli sociali e alla negazione della stessa forma drammatica adottata. Il
teatro di
P., i cui drammi hanno complessivamente il titolo di
Maschere nude, analogamente a quanto si è detto per le novelle e i
romanzi, si muove dapprima sulle orme della commedia borghese in voga ai suoi
tempi. È questo il caso di commedie come
Lumie di Sicilia (1910),
Pensaci, Giacomino! (1916),
Liolà (1917, scritta
originariamente in dialetto siciliano),
Così è (se vi pare)
(1917),
Il piacere dell'onestà (1917),
Ma non è una cosa
seria (1918),
Il gioco delle parti (1918),
La patente (1919),
Tutto per bene (1920),
Come prima, meglio di prima (1920),
La
signora Morli, una e due (1920), ecc., desunte per lo più da sue
novelle. I temi di queste opere teatrali sono in gran parte gli stessi delle
opere narrative (molti drammi, d'altronde, furono la trasposizione
teatrale di novelle, e le novelle pirandelliane, del resto, contenevano una
implicita struttura drammatica). L'impianto di questi primi lavori
teatrali è ancora, almeno apparentemente, naturalistico. Domina il
"personaggio" nell'accezione "umorista" che si
è vista in precedenza. La sua caratteristica essenziale è quella
di stare dentro e fuori il dramma stesso, dentro come oggetto e vittima che
subisce, fuori come coscienza critica dell'azione. Al centro di queste
opere teatrali, sta un personaggio stonato rispetto all'ambiente, che
viene posto o si pone in situazioni paradossali, in costituzionale collisione
con tali situazioni, di cui rappresenta la capacità di sopportazione e
contemporaneamente il giudizio e il distacco, cioè la coscienza. Il
personaggio domina queste situazioni con la forza del ragionamento, rigidamente
consequenziale, e con la coscienza del paradosso, senza demolirne le premesse,
senza realmente uscire da esse. In altri termini, il personaggio è
così immerso in una situazione da teatro borghese: Ciampa nel
Berretto
a sonagli, Baldovino nel
Piacere dell'onestà, Leone Gala
nel
Gioco delle parti, sono finti mariti che pretendono di condurre fino
in fondo il loro finto ruolo, denunciando i rischi dell'uscita dalla
finzione e provocando in tal modo l'emergere della situazione
contraddittoria di tutti i personaggi. La costante che rende umoristico il
personaggio è l'irrigidimento del codice sociale, fino alla sua
inversione funzionale; infatti, spingere fino in fondo i termini della
moralità codificata provoca la disfunzione del codice e il disvelamento
del suo valore puramente strumentale. Questi personaggi che pretendono
l'assoluta coerenza dell'apparire sono la finzione
esistenziale-teatrale che presenta se stessa come unica possibile espressione di
una società che ha perso da molto tempo la radice dell'essere. A
partire dalla trilogia costituita dai
Sei personaggi in cerca
d'autore (1921),
Ciascuno a suo modo (1924),
Questa sera si
recita a soggetto (1930), lo sperimentalismo del teatro pirandelliano si
accentua fino a costituire una novità dirompente. In questi drammi
metateatrali l'abolizione della funzione naturalistica comporta una vera e
propria rivoluzione dei mezzi rappresentativi di
P.; la scena non finge
più il salotto borghese, ma finge quello che è: una scena di
teatro. Nei
Sei personaggi in particolare, la straordinarietà
della costruzione poggia non tanto sulla proposta, in sé non nuova, di un
teatro nel teatro, quanto sul problema del rapporto tra autore e personaggi,
cioè sul problema stesso della creazione artistica. La trama di
quest'opera, il cui successo consacrò
P. come drammaturgo di
fama mondiale, è la seguente: mentre una compagnia drammatica prova
Il
gioco delle parti di
P., sulla scena appaiono misteriosamente sei
personaggi: il Padre, la Madre, la Figliastra, il Figlio, il Giovinetto, la
Bambina. Essi nascono, spiega il Padre, dalla fantasia di un autore che
però non seppe e non volle farli vivere in un'opera d'arte;
rifiutati dall'autore, cercano qualcuno che li rappresenti sulla scena -
che dia loro, quindi, una "consistenza". Fra lo sbigottimento degli
attori, in un susseguirsi di interruzioni e di riprese caotiche, ciascuno di
loro racconta un torbido dramma di rapporti familiari, finché si arriva
alla tragedia finale: la Bambina annega in una vasca e il Giovinetto si spara.
Ma - e qui sta il paradosso - questi fatti
potevano essere, ma non sono
avvenuti; l'autore che li ha immaginati ha rifiutato di dare forma
compiuta ai personaggi e alle loro vicende, perché il loro essere allo
stato fluido rappresenta la tragica condizione esistenziale: se la vita è
un perenne fluire, una situazione o un personaggio definiti non possono
raffigurarla. Quando poi il Capocomico, affascinato suo malgrado dalla materia
teatrale che gli viene proposta, tenta di proporne la recitazione ai suoi
attori, si crea il secondo dramma dei personaggi: essi non si riconoscono nella
recitazione degli attori. Solo loro possono rappresentare, o meglio vivere, la
tragedia, che è poi la loro realtà: una realtà che si
ripete nell'eternità dell'arte. L'autore ha sostituito
al dramma la dimostrazione dell'impossibilità di rappresentarlo:
scardinata ogni convenzione scenica, veniva messo in discussione tutto il teatro
precedente. Tra le altre opere teatrali di
P.:
La morsa (1910);
La giara (1917);
Enrico IV (1922);
All'uscita (1922);
Vestire gli ignudi (1923);
L'uomo dal fiore in bocca
(1923);
La vita che ti diedi (1923);
Lazzaro (1929);
Come tu mi
vuoi (1930);
Quando si è qualcuno (1933);
I giganti
della montagna (1937) (Caos, Agrigento 1867 - Roma 1936).
Luigi Pirandello
LE OPERE DI LUIGI PIRANDELLO
|
Opere poetiche
|
1889
|
Mal giocondo
|
1891
|
Pasqua di Gea
|
1894
|
Pier Gudro. Poemetto
|
1895
|
Elegie renane
|
1901
|
Zampogna
|
1909
|
Scamandro
|
1912
|
Fuori di chiave
|
1891-96
|
Elegie romane. Traduzione da Goethe
|
1933
|
La favola del figlio cambiato. Libretto per la musica di G.F.
Malipiero
|
Novelle
|
1894
|
Amori senza amore
|
1922
|
Novelle per un anno
|
Opere Teatrali
|
1899
|
La ragione degli altri
|
1910
|
La morsa
|
1910
|
Lumìe di Sicilia
|
1916
|
Pensaci, Giacomino!
|
1917
|
Liolà
|
1917
|
Il berretto a sonagli
|
1917
|
Così è (se vi pare)
|
1917
|
La giara
|
1917
|
Il piacere dell'onestà
|
1918
|
Ma non è una cosa seria
|
1918
|
Il giuoco delle parti
|
1919
|
L'uomo, la bestia e la virtù
|
1919
|
La patente
|
1920
|
Tutto per bene
|
1920
|
Come prima, meglio di prima
|
1920
|
La signora Morli, una e due
|
1921
|
Sei personaggi in cerca d'autore
|
1925
|
La sagra del Signore della nave
|
1922
|
Enrico IV
|
1922
|
All'uscita
|
1923
|
Vestire gli ignudi
|
1923
|
L'uomo dal fiore in bocca
|
1923
|
La vita che ti diedi
|
1924
|
Ciascuno a suo modo
|
1926
|
Diana e la Tuda
|
1927
|
L'amica delle mogli
|
1928
|
La nuova colonia
|
1929
|
Lazzaro
|
1930
|
Questa sera si recita a soggetto
|
1930
|
Come tu mi vuoi
|
1931
|
Sogno (ma forse no)
|
1932
|
Trovarsi
|
1933
|
Quando si è qualcuno
|
1937
|
I giganti della montagna
|
Romanzi
|
1901
|
L'esclusa
|
1902
|
Il turno
|
1904
|
Il fu Mattia Pascal
|
1911
|
Suo marito
|
1913
|
I vecchi e i giovani
|
1916
|
Si gira
|
1926
|
Uno, nessuno e centomila
|
Saggistica
|
1908
|
Arte e Scienza
|
1908
|
L'Umorismo
|